Archive for the ‘ Economia ’ Category

Pompei, una lezione inglese

Secondo un recente studio Eurostat l’Italia è il Paese Ue che investe di meno in cultura. Per la cultura, infatti, l’Italia spende solo il 1,1% della spesa pubblica, lasciandosi superare dal resto d’Europa, compresa la Grecia (1,2%). Insomma siamo in pieno suicidio culturale, oltre che turistico.

Se però guardiamo oltre i nostri confini scopriamo però che c’è chi apprezza, scommette e sfrutta la nostra cultura. Mi riferisco a miniera archeologica che rappresenta Pompei. Quella stessa Pompei che negli ultimi anni è balzata alle cronache più per i continui crolli e lo stato di abbandono in cui versa che per il numero di turisti attratti dall’area archeologica.

Bene, su Pompei e sull’eruzione del 79 d.C. –  quindi sul nostro Patrimonio culturale, sulle nostre radici – ha deciso di investire il British Museum di Londra dedicando l’esposizione temporanea ‘Life and death Pompeii and Herculaneum’, nel periodo marzo – settembre 2013, all’area vesuviana di Pompei ed Ercolano. Il più grande evento sul tema che si tiene a Londra da quarant’anni a questa parte, con oltre 250 reperti. Alcuni dei quali mai esposti in Italia in precedenza!

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A giudicare dal successo delle prime settimane di esposizione si tratta di un’operazione di mecenatismo che frutterà molto al British Museum, ma che avrà la sua ricaduta indiretta anche sull’area vesuviana dove, nelle ultime settimane, è già stato registrato un incremento del turismo.

Un palliativo, senza dubbio. Che però ci può svelare qualche trucchetto di marketing.

Il British Museum infatti ha lanciato l’esposizione da poco più di 2 settimane e, casualmente, è notizia di pochi giorni fa la scoperta di una città sotterranea, l’antica londinium, che è stata rinominata subito in modo a dir poco evocativo la ‘Pompei del nord’.

Ma la ciliegina sulla torta è l’aver veicolato il marchio Pompei in modo virale attraverso la musica, con la complicità della band inglese Bastille. Il gruppo londinese proprio in questa settimane sta scalando la vetta delle classifiche con un successo internazionale molto orecchiabile dal titolo, indovinate un po’… Pompeii!

Pochi giorni fa i due successi artistico-culturali si sono fusi in un unico grande super spot: la band Bastille ha infatti suonato il successo Pompeii in versione unplugged all’interno di una delle sale del British Museum dove ha luogo l’esposizione. Chapeau!

 Che dire, una lezione di marketing e di investimento degna dei migliori mecenati del rinascimento italiano. Gli inglesi evidentemente oltre alle principali strategie di marketing hanno studiato il Rinascimento italiano. Nel frattempo noi eravamo occupati a dimenticare le nostre origini affossando gli investimenti in istruzione e cultura.

Questo è il commento del Ministro per la Coesione Territoriale Fabrizio Barca in merito al post. Come sappiamo Barca dall’inizio del suo incarico ha preso particolarmente a cuore la questione del rilancio di Pompei:

A.I.

Uccisione di Gheddafi: senza pietà, senza vergogna

La vendetta: “Questo è per Lockerbie…” titola il Sun;

La derisione: “Non sparate! Sconfitto e sanguinante, il tiranno libico chiede pietà. Pochi momenti dopo, muore giustiziato con un proiettile alla testa” sottolinea il Daily Mirror.

“Sic transit gloria mundi”.

Crisi, a Napoli cambiano gli stili di vita: il fenomeno del Ticket crossing

Con la recessione cominciano a cambiare gli stili di vita, anche a Napoli. In città i campanelli d’allarme, nella vita di tutti i giorni, non mancano. Uno di questi è un’usanza che, pur sfuggendo alle rilevazioni e alle statistiche, si sta diffondendo sottotraccia: stiamo parlando del Ticket crossing ovvero il passaggio di un titolo di viaggio da un passeggero ad un altro. Una donazione, nella maggior parte indotta dal beneficiario.

A Napoli quello del Ticket crossing è un fenomeno che ha subito un’impennata dopo il rincaro, seppur minimo, del prezzo dei titoli di viaggio appartenenti al circuito Unico – prezzo che, nonostante l’aumento, rimane lontano dalle tariffe prevista a Milano o Capri, per fare due esempi –. La pratica è più diffusa nelle zone periferiche senza particolari accentuazioni demografiche. Donne e uomini, giovani e anziani, italiani e stranieri, meno abbienti e insospettabili: fuori alle stazioni della metropolitana, in attesa di un donatore disposto a cedere il proprio ticket, può capitare di trovare chiunque.

Come conferma un agente di stazione della Linea 1 di Metronapoli «negli ultimi mesi i passaggi di biglietti tra utenti sono aumentati. Così come sono aumentate le persone che attendono, fuori dalle stazioni, qualche passeggero in uscita disposto a cedere il proprio titolo di viaggio». Sono per lo più giovani, dichiara l’agente, «ma spesso capita di vedere anziani – clochard e non -, immigrati, uomini e donne di mezza età. Italiani. E chissà quanti altri passaggi sfuggono alla nostra vista». Insomma, il Ticket crossing non è una peculiarità delle fasce notoriamente più deboli.

Rispetto al passato non siamo più di fronte alla piaga dell’evasione – comunque presente – e nemmeno alla disobbedienza civile contro il caro-biglietto: il Ticket crossing è un fenomeno di solidarietà anticrisi che si sta diffondendo a macchia d’olio. In città come Genova, per esempio, esistono dei veri e propri Ticket crossing points mappati su internet. Questo perché, mentre l’uso del trasporto pubblico consente, a parità di distanza, un risparmio rispetto all’utilizzo dell’automobile, con il Ticket crossing il costo è pari a zero; e non si commette alcun reato.

Metronapoli fa sapere che «esiste una task force che si occupa di controllare l’evasione ma il Ticket crossing è un fenomeno che sfugge alle rilevazioni. È sicuramente un campanello d’allarme che la dice lunga sullo stato di depressione economica che viviamo in città. E’ evidente – ammette Gilda Donadio – che si tratta di un fenomeno che ha a che fare con le problematiche sociali. Per quanto riguarda Metronapoli però noi non ne patiamo».

In tempi di crisi evidentemente ognuno taglia dove può, ma anche le istituzioni possono dare un contributo: la proposta di introdurre il biglietto Unico low cost (50 cent per 20 minuti) – inserita nel programma sulla mobilità cittadina del sindaco de Magistris – potrebbe rivelarsi uno strumento utile ad arginare il fenomeno.

A.I.

 

Il messia Jobs è morto: iPhone, iSad, iSlave

Ieri è morto un genio visionario. Prematuramente. Un innovatore, «l’ingegnere dei nostri sogni», che ha semplificato la vita di milioni di persone trasformando azioni meccaniche, ripetitive e faticose in app: Applications, Apply, App, Apple! Grazie a lui we don’t apply anymore. Se non dobbiamo più portare il peso di un libro nello zaino, se non dobbiamo fare la fatica mnemonica di ricordare la strada di questo o quel luogo, se non dobbiamo neanche più premere i tasti del nostro portatile perché per scorrere un menù o uno schermo basta un touch, lo dobbiamo a lui. Nel bene e nel male.

La giornata di ieri è stata scandita dal ricordo e dalla magnificazione mediatica di Steve Jobs e del sogno americano da lui incarnato. Tra le tante iniziative che abbiamo potuto osservare sulla stampa e sui giornali online quella del sito di Repubblica – che oggi, a più di 24 ore dalla morte di Jobs parla, giustamente, di cordoglio senza fine – è stata particolarmente interessante: il giornale ha pubblicato in un banner a scorrimento le frasi di commiato dei fan di Jobs. Tra i tanti messaggi superficiali, banali e ripetitivi, c’è stata una frase che mi ha colpito in modo particolare. L’unica capace di farmi veramente riflettere e soffermare in mezzo a questo magma ininterrotto di lutto digitale condiviso: «(Jobs, ndr) Ci hai reso schiavi dell’obsolescenza programmata». Una triste quanto consapevole ammissione.

Steve Jobs è considerato un eroe (Occidentale) perché è riuscito a rendere schiavi di un’azienda milioni di persone in tutto il mondo facendo sì che quei prodotti diventassero prima dei simboli di uno status quo, quindi dei beni di consumo dei quali non se ne potesse fare a meno. Prodotti oltretutto in rapido aggiornamento quindi soggetti ad un ciclo di vita (anti-economico) brevissimo.

Think different? L’opera di massificazione collettiva dei consumi di Jobs ha raggiunto la perfezione: il motto Apple ‘think different’ è un ossimoro se pensiamo che milioni di persone in tutto il mondo utilizzato gli stessi strumenti tecnologici forniti dalla Apple. «L’identificazione collettiva, che cominciò a diffondersi negli anni Ottanta ed è diventata un fenomeno di massa nell’ultimo decennio, scatta solo tra chi utilizza le tecnologie inventate da Jobs. Ma come ci si può identificare con i prodotti di un tecnologo?» si chiede su LINKIESTA Enrico Pedemonte.

Apple è passata in brevissimo tempo dalla diffusione di nicchia alla massificazione e al monopolio. L’azienda di Cupertino è andata alla conquista del mondo con delle perfette strategie di marketing: coniando nuovi neologismi (iPhone, iTunes, iPad e così via) studiati a tavolino, con prodotti presentati di volta in volta in maniera liturgica e resi riconoscibili come nessun altro competitor grazie al brand planetario; la mela morsicata come la mela del peccato originale. Steve Jobs come il nuovo messia morto di un mare incurabile come una persona qualunque, con un suo testamento (il discorso ai laureati di Stanford) e la diffusione in pillole del suo verbo ad opera dei suoi seguaci attraverso i social media. Gli iFans, tutti iSad. Una cosa pazzesca. Possiamo già immaginare il boom di vendite che i prodotti Apple avranno a partire da oggi.

Insomma, quello che il Cristianesimo era riuscito a plasmare e ad ottenere in 2 millenni di sostanziale predominio religioso l’hi-tech (e il marketing al servizio dell’hi-tech) lo ha reso possibile in qualche decennio: «Per Steve mi par quasi d’essere in lutto. Strane emozioni per un personaggio al contempo così vicino e così lontano» mi ha confessato un amico confermando, di fatto, il mio ragionamento.

Steve Jobs ha conquistato il mondo creando nei consumatori globali, attraverso il marketing, una dipendenza dai suoi prodotti, da questi beni di lusso (considerati i prezzi). Per questo – oltre che per i meriti relativi alle sue innegabili scoperte ingegneristiche – Steve Jobs oggi è osannato.

Qualcuno ha paragonato Jobs a Leonardo, per la capacità di inventare oggetti nuovi. Giustissimo. Ma Leonardo da Vinci non progettava beni di consumo per poi venderli su scala planetaria. Magari lo faceva su commissione del Vaticano, ma Leonardo inventava per l’umanità mentre Steve Jobs inventava prima per la sua azienda e poi (forse) per l’umanità.

India. In conclusione, per uno strano scherzo del destino, ieri è stato il giorno in cui il governo indiano ha presentato il primo tablet low cost. Un dispositivo ultraeconomico: il prezzo è di soli 35 dollari. Prezzo non fuori mercato ma anti-mercato. Nel giorno della morte dell’eroe americano Steve Jobs il vero insegnamento ci arriva dall’India. Libertà infatti è (anche) garantire a chiunque l’accessibilità ai beni di consumo e alle tecnologie. Esattamente l’effetto opposto ottenuto da chi crea a tavolino una dipendenza da prodotti, venduti a prezzi stellari, che in breve tempo diventano obsoleti.

A.I.

Passato il funerale, finita la santificazione a qualcuno non piace Jobs – DAGOSPIA

Perchè Steve Jobs non mi ha cambiato la vita – Il Foglio

Sta finendo l’era del Pil? Ben venga

In un articolo apparso su Repubblica il 7 agosto, ‘Il Parlamento riapre, l’ira bipartisan dei deputati’, si evidenziava la contrarietà dei nostri dipendenti del Parlamento rispetto alle ferie cancellate a causa della tempestaeconomico-finanziaria che si è abbattuta sul mondo Occidentale.

All’interno dell’articolo però, tra una Nunzia de Girolamo inviperita e una Lanzillotta di ferro, ecco spuntare un commento sull’attuale situazione dell’Occidente, da parte del pidiellino Mario Baccini, a dir poco rivelatore: “Qui si sta esaurendo l’era del Pil”. Un’affermazione da titolo, ma non per Repubblica.

L’economia occidentale come sappiamo si basa soprattutto su un indice, il Pil, Prodotto interno lordo. Sulla base di questa grandezza le economie degli Stati possono dichiararsi ricche o meno ricche e, in tempi di crisi come questi, possono essere considerate affidabili o meno affidabili in relazione alla propria solvibilità e alla capacità di ripagare il debito sovrano detenuto da investitori (privati o pubblici che siano). L’Italia – in sintesi, parlando da non economista (che di questi tempi non è poi così un male) – , alla luce del proprio debito elevato, è ritenuta poco affidabile dai suoi creditori proprio a causa del basso Prodotto interno lordo prolungato nel tempo. La bassa crescita economica non rassicura gli investitori e i creditori, e l’Italia si ritrova risucchiata in un circolo vizioso dal quale sembra difficile uscirne. Il Pil è una grandezza che al suo interno contiene vari indici. Tra questi uno fondamentale è quello del consumo delle famiglie, consumo che comprende, ad esempio, quello della benzina, o l’acquisto di beni – utili o futili che siano -. Ma anche la produzione di armi, i rifiuti prodotti dal consumo, il costo della criminalità, l’inquinamento e gli incidenti stradali.

L’Italia ha avviato negli scorsi mesi lo studio per la creazione di un indicatore alternativo al Pil, da introdurre in maniera sperimentale a partire dal 2012. Forse sarebbe il caso di anticiparne l’introduzione e smarcarsi dal meccanismo perverso del Prodotto Interno Lordo, prima che sia troppo tardi. Si potrebbe prendere spunto dal Genuine Progress Indicator (GPI), in italiano “indicatore del progresso reale”, che ha come obiettivo la misurazione dell’aumento della qualità della vita distinguendo con pesi differenti tra spese positive (perché aumentano il benessere, come quelle per beni e servizi) e negative (come i costi di criminalità, inquinamento, produzione di rifiuti); oppure da un altro indice, simile al GPI, il Prodotto interno lordo verde, introdotto da alcune province cinesi, che tenga conto delle energie non inquinanti in una fase in cui il petrolio a disposizione è in diminuzione causandone inevitabilmente l’aumento del prezzo.

Nel 1968 Robert Kennedy, nel suo discorso sul Prodotto Interno Lordo, disse: “Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Dow-Jones, né i successi del paese sulla base del prodotto nazionale lordo (PIL).
Il PIL comprende anche l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette. (…)
Il PIL comprende programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai nostri bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari, (…) si accresce con gli equipaggiamenti che la polizia usa per sedare le rivolte, e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari. Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia o la solidità dei valori familiari, l’intelligenza del nostro dibattere o l’onestà dei nostri pubblici dipendenti.
Non tiene conto né della giustizia nei nostri tribunali, né dell’equità nei rapporti fra di noi. Il Pil non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro paese”.

Archiviare l’era del Pil introducendo nuovi misuratori potrebbe essere visto come un escamotages, ma a fin di bene. Per l’economia e per la nostra qualità della vita.

Anche perché, come sostiene Pierangelo Dacrema nel suo libro ‘La dittatura del Pil’, il prodotto interno lordo è ormai “più un freno che uno stimolo allo sviluppo”.

da Il Punto Magazine