L’Italia e l’ascensore sociale bloccato

Se la domanda viene fatta a chi ha superato la boa dei cin­quanta il risultato è, tutto som­mato, positivo: il 41 per cento dice di aver migliorato il proprio stato sociale rispetto alla famiglia d’origi­ne. Quasi la metà. Se la stessa do­manda piomba sui loro figli ecco che il cielo si copre di nuvole: solo il 6 per cento dei giovani di 20 anni dice di trovarsi in condizioni miglio­ri. Mentre uno su cinque sostiene che il proprio stato sociale è addirit­tura peggiorato. Sembra passato un secolo da quell’Italia che alla vigilia del boom economico aveva fiducia nel futuro, sentiva sulla pelle il sen­so della possibilità e giorno dopo giorno si costruiva un domani mi­gliore. Sembra passato ancora più tempo da quando nel nostro Paese i figli degli operai, studiando, diven­tavano medici, avvocati e commer­cialisti.

Oggi non è più così. E non soltanto perché il 44 per cento degli architetti è figlio di architetto, il 42 per cento di avvocati e notai è figlio di avvocati e notai, il 40 per cento dei farmacisti è figlio di farmacisti. Ma perché chi nasce in una fami­glia ricca rimane ricco e chi nasce in una famiglia povera rimane pove­ro. Siamo un Paese bloccato. E que­sto non è solo un problema per chi rimane indietro ma un guaio serio per tutti. È proprio la possibilità di un futuro migliore per noi e per i nostri figli che ci spinge ad investi­re nello studio, nel lavoro, nel sacri­ficio, in tutto ciò che aiuta a cresce­re. E se questa molla si scarica, pri­ma o poi i guai arrivano anche per i pochi fortunati che campano di ren­dita. È dedicato proprio alla mobili­tà sociale il primo lavoro di Italia Fu­tura, l’associazione creata da Luca Cordero di Montezemolo con l’obiettivo di promuovere il dibatti­to sul futuro del Paese «andando fi­nalmente oltre le patologie di una transizione politica infinita e ripeti­tiva». Il rapporto — «L’Italia è un Paese bloccato. Muoviamoci!» non si limita all’analisi dei problemi, al racconto dell’involuzione italiana degli ultimi 50 anni. Ma indica an­che tre possibili soluzioni, offrendo­le al dibattito pubblico.

La prima, e più importante, è il fondo opportunità. Ad ogni bambi­no che nasce viene intestato un con­to in banca al quale solo lui avrà ac­cesso dopo aver superato l’esame di maturità. La somma iniziale (1.000 euro) è uguale per tutti. Uguale per tutti è anche il contributo (600 eu­ro) versato per ogni anno della scuola elementare. Dalle medie in poi, invece, la somma diventa lega­ta al merito e può andare da zero a 1.400 euro l’anno. In questo modo i più bravi accumuleranno alle fine delle superiori un tesoretto di 20 mi­la euro. Chi si ferma alla maturità potrà incassare il 40 per cento della somma. Chi prosegue gli studi e si iscrive all’università incasserà il re­sto dei soldi sotto forma di mini sti­pendio mensile per un massimo di tre anni. L’obiettivo è spingere i gio­vani italiani a studiare. Oggi il 20 per cento dei ragazzi italiani tra 18 e 24 anni ha abbandonato le scuole superiori e non si è iscritto a nes­sun programma di formazione, con­tro una media europea del 14,8 per cento. In molti casi a lasciare sono i più bravi, con l’unica colpa di esse­re nati in una famiglia che un figlio all’università non se lo può permet­tere. Un esempio? L’Osservatorio sui talenti dell’Istituto Cattaneo ha seguito le scelte fatte dai 700 diplo­mati più bravi d’Italia, ragazzi che dalla terza media in poi hanno avu­to sempre il massimo dei voti. Ses­santa di loro non si sono iscritti al­l’università, quasi tutti per motivi economici. Il fondo opportunità vuole impedire che questi talenti vengano sprecati. Il modello è il Chi­ld trust fund inglese che, però, pre­vede un contributo fisso, non lega­to al merito. Ecco, ma il merito co­me si misura? «La soluzione miglio­re — spiega Irene Tinagli, autrice del rapporto e docente all’Universi­tà Carlo III di Madrid — sarebbe l’in­troduzione di un test standard per tutto il territorio nazionale».

La seconda proposta di Italia Fu­tura è l’affitto d’emancipazione. Ogni lavoratore fra i 22 e i 30 anni che ha lasciato la casa dei genitori ed ha un reddito annuale al di sotto dei 23 mila euro lordi riceve un as­segno mensile di 200 euro. Allo stes­so tempo viene introdotta una forte agevolazione fiscale per i proprieta­ri di casa che affittano a chi ha me­no di 35 anni. La proposta è ispirata direttamente alla renta d’emancipa­ción introdotta in Spagna poco più di un anno fa. Ed ha come obiettivo sostenere la mobilità dei giovani, stavolta quella fisica. Affitto e bollet­te pesano specie nei primi anni di lavoro e non è solo per colpa dei mammoni o dei bamboccioni se un giovane su tre dice che non accette­rebbe un lavoro fuori dal proprio co­mune. O se negli ultimi 25 anni è aumentata la percentuale dei ragaz­zi che vivono ancora a casa dei geni­tori.

La terza proposta è il pacchetto per le giovani famiglie, quelle dove tutti e due i genitori lavorano e ci sono figli sotto i sei anni. Oltre alla cumulabilità dell’affitto di emanci­pazione, viene previsto il rimborso parziale della baby sitter e l’abbatti­mento dalla base imponibile dei pri­mi 10 mila euro per il reddito delle mamme che lavorano. «Spesso la cura di un figlio — spiega l’autrice del rapporto, Irene Tinagli — costa così tanto che le donne preferisco­no rinunciare al lavoro e restare a casa. Una scelta che ha ricadute ne­gative non solo sul reddito della fa­miglia e sulle scelte future per i fi­gli. Ma anche sulla crescita del Pae­se ».

da Corriere.it

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